sabato 9 ottobre 2010

Federica Faiella e Massimo Scali


Continuo la carrellata dei miei pattinatori artistici su 
ghiaccio preferiti:

Argento agli europei 2010,bronzo ai mondiali 2010
Federica Faiella e Massimo Scali.
Se volete assistere al teatro su ghiaccio guardate loro!
Europei di quest'anno:


Mondiali 2008


Qua agli europei 2009,
romanticismo a go go sulle note della
"Sonata al chiaro di luna" di Beethoven
http://www.youtube.com/watch?v=VdBHGYptxa4






mercoledì 29 settembre 2010

Meryl Davis e Charlie White

Pattinaggio artistico su ghiaccio
Si avvicina(finalmente)la prossima stagione di pattinaggio artistico su ghiaccio e ricordo volentieri le ultime Olimpiadi invernali ,così mi è venuta l'idea  di fare una serie di post dei miei pattinatori preferiti.Oggi inizio con una coppia che mi piace moltissimo,sono i campioni in carica degli Stati uniti e medaglia d'argento a Vancouver:Meryl Davis e Charlie White.
Sono assolutamente fantastici!!





lunedì 27 settembre 2010

Dostoevskij




DOSTOEVSKIJ

Avrei voluto diventare Dostoevskij per curvare le parole
Per ogni piega, ogni distanza, ogni riflesso che ci scardinava il cuore
Avrei voluto insieme a te rubare l'acqua della Luna
Ma come Orlando ho perso il senno e ho perso anche la fortuna.
Avrei voluto cancellare dai tuoi occhi quella noia e quella solitudine
Ma allora davo troppe cose per scontate e non ti seguivo più
Come la pioggia anche l'amore rinfresca una stagione ostile
Come la pioggia anche l'amore è destinato poi a finire.
Le cose più importanti come sempre noi le diciamo senza voce
Basta guardarsi dietro il vetro di un perdono o sotto un battito di luce
E il pianto vero non ha lacrime, né spettatori né rifugio
Ci siamo persi in un bicchiere e ritrovati in un naufragio.
Avrei voluto diventare Dostoevskij per curvare le parole
Per ogni piega, ogni distanza, ogni riflesso che ci scombinava il cuore
Avrei voluto insieme a te rubare l'acqua della Luna
Ma come tanti ho perso il tempo e ho perso anche la fortuna.

(testo di M. Bubola, musica di M. Bubola e P. Fabrizi)

giovedì 23 settembre 2010

Questione di sopravvivenza

MASSIMO MURRU 
Altynai Asylmuratova



QUESTIONE DI SOPRAVVIVENZA

Senza questa bocca tua che non si stanca mai, 
di quel che succede io che cosa ne saprei
io, che vado in giro un poco estraneo 
è questione di sopravvivenza, vivere con te o stare senza
Senza questa tua curiosità pettegola, che scalda la vita di chi gira intorno a te
io, che vado via quando mi parlano 
è questione di sopravvivenza, vivere con te o stare senza te.
Ti cercherei se te ne andassi via, i tuoi difetti mi sono indispensabili
o cercherei, un'altra come te, che rassomigli a te, perfino nelle tue manie
ma non c'è n'è, un'altra che sia uguale a te
una che riempie la giornata, una con la tua voglia di vita.
Senza i tuoi capelli che mi fan da bussola, 
come capirei che direzione prendere
io, che oltre il mio naso non ci vedo più 
è questione di sopravvivenza, vivere con te o stare senza te.
Ti cercherei, se te ne andassi via, i tuoi difetti mi sono indispensabili
o cercherei, un'altra come te, che rassomigli a te, perfino nelle tue manie
ma non c'è n'è, un'altra che sia uguale a te
una che riempie la giornata, una con la tua voglia di vita.
Certe volte sei testarda e irraggiungibile, 
prendere o lasciare io ti prendo come sei
e per altro che non posso dire quì 
é questione di sopravvivenza, vivere con te o stare senza te.
(G.Paoli)

venerdì 17 settembre 2010

Sono peccato






Sono peccato

Vivo nel peccato del mio essere.
Chiudo gli occhi e sto con me
nessuno sa,immagina
quel che mi dico
quel che penso
chi, cosa vedo.....
quando chiudo gli occhi e sto con me.
Quando sto con me
parto
ritorno
mi perdo
e nessuno sa
che andare è tornare....
che la maschera è debolezza
che la maschera è forza.
Molti credono di sapere,
conoscermi,
ed io,glielo lascio credere.
Mi hanno cresciuto in una gabbia
facendomi illudere della libertà
facendomi credere....
affinchè io fossi docile
affinchè io obbedissi...marionetta senza fili.
Ma io sono libera
dentro me,sono libera
non si può imprigionare il pensiero,
le idee,
l'anima,
il cuore.
Credono di possedermi
ed io...glielo lascio credere...
Vivo nel peccato del mio essere.....??

Patrizia Ensoli


venerdì 10 settembre 2010

Ti amai


(English version)

 I loved you

I loved you, though perhaps
still not off the
all love.
But if you no longer torment
I want nothing you grieve.
Hopeless, jealous,
I loved you in silence and suffering,
I loved you dearly as
-God-wants- to love another.
Pushkin

martedì 7 settembre 2010

Il piccolo principe

                                                         

Brano tratto dal bellissimo racconto fantastico per bambini (e non)

"Il piccolo principe"(Le Petit Prince)scritto in chiave allegorica e delicata da 
  Antoine de Saint-Exupéry, una bella lezione sul significato dell'amore e dell'amicizia!

Capitolo 21°

  

In quel momento apparve la volpe. 
"Buon giorno", disse la volpe. 
"Buon giorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. 
"Sono qui", disse la voce, "sotto al melo..." 
"Chi sei?" domando' il piccolo principe, "sei molto carino..." 
"Sono una volpe", disse la volpe. 
"Vieni a giocare con me", le propose il piccolo principe, sono cosi' triste..." 
"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomestica". 
"Ah! scusa", fece il piccolo principe. 
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: 
"Che cosa vuol dire ?" 
"Non sei di queste parti, tu", disse la volpe, "che cosa cerchi?" 
"Cerco gli uomini", disse il piccolo principe. 
"Che cosa vuol dire ?" 
"Gli uomini" disse la volpe, "hanno dei fucili e cacciano. E' molto noioso! Allevano anche delle galline. E' il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?" 
"No", disse il piccolo principe. "Cerco degli amici. Che cosa vuol dire "?" 
"E' una cosa da molto dimenticata. Vuol dire ..." 
"Creare dei legami?" 
"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io saro' per te unica al mondo". 
"Comincio a capire" disse il piccolo principe. "C'e' un fiore... credo che mi abbia addomesticato..." 
"E' possibile", disse la volpe. "Capita di tutto sulla Terra..." 
"Oh! non e' sulla Terra", disse il piccolo principe. 
La volpe sembro' perplessa: 
"Su un altro pianeta?" 
"Si".
"Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?" 
"No". 
"Questo mi interessa. E delle galline?" 
"No". 
"Non c'e' niente di perfetto", sospiro' la volpe. Ma la volpe ritorno' alla sua idea: 
"La mia vita e' monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio percio'. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sara' illuminata. Conoscero' un rumore di passi che sara' diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi fara' uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiu' in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me e' inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo e' triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sara' meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che e' dorato, mi fara' pensare a te. E amero' il rumore del vento nel grano..." 
La volpe tacque e guardo' a lungo il piccolo principe: 
"Per favore... addomesticami", disse. 
"Volentieri", disse il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, pero'. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose". 
"Non si conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno piu' tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose gia' fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno piu' amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!" 
"Che cosa bisogna fare?" domando' il piccolo principe. 
"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe. "In principio tu ti sederai un po' lontano da me, cosi', nell'erba. Io ti guardero' con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' piu' vicino..." 
Il piccolo principe ritorno' l'indomani. 
"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe. 
"Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincero' ad essere felice. Col passare dell'ora aumentera' la mia felicita'. Quando saranno le quattro, incomincero' ad agitarmi e ad inquietarmi; scopriro' il prezzo della felicita'! Ma se tu vieni non si sa quando, io non sapro' mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti". 
"Che cos'e' un rito?" disse il piccolo principe. 
"Anche questa e' una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe. "E' quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore. C'e' un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedi ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedi e' un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza". 
Cosi' il piccolo principe addomestico' la volpe. 
E quando l'ora della partenza fu vicina: 
"Ah!" disse la volpe, "... piangero'". 
"La colpa e' tua", disse il piccolo principe, "io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi..." 
"E' vero", disse la volpe. 
"Ma piangerai!" disse il piccolo principe. 
"E' certo", disse la volpe. 
"Ma allora che ci guadagni?"
Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano". 
Poi soggiunse: 
"Va' a rivedere le rose. Capirai che la tua e' unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalero' un segreto". 
Il piccolo principe se ne ando' a rivedere le rose. 
"Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora e' per me unica al mondo". 
E le rose erano a disagio. 
"Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si puo' morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, e' piu' importante di tutte voi, perche' e' lei che ho innaffiata. Perche' e' lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perche' e' lei che ho riparata col paravento. Perche' su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perche' e' lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perche' e' la mia rosa". 
E ritorno' dalla volpe. 
"Addio", disse.
"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. E' molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale e' invisibile agli occhi". 
"L'essenziale e' invisibile agli occhi", ripete' il piccolo principe, per ricordarselo. 
"E' il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa cosi' importante". 
"E' il tempo che ho perduto per la mia rosa..." sussurro' il piccolo principe per ricordarselo. 
"Gli uomini hanno dimenticato questa verita'. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa..." 
"Io sono responsabile della mia rosa..." ripete' il piccolo principe per ricordarselo.


Tratto dal racconto:"Il piccolo Principe"
 di
 Antoine de Saint Exupéry

sabato 28 agosto 2010

Il Tuffatore


Pattinatore su ghiaccio Johnny Weir

Il tuffatore 

Di te amo le lunghe gambe, 
puerili, lente, 
aste tenere 
soavi 
che per spirali adolescenti salgono 
infinite, 
esatto tocco e fremito. 
Di te amo le braccia 
giovani, 
che abbracciano fidenti 
il mio squilibrio, 
mani disvelate, 
mani moltiplicanti 
che accompagnano in fretta il mio incupito nuoto. 
Amo il tuo grembo pieno d'ombra, 
onda lenta e solinga, 
dove si va facendo esausto il mare, 
dove affondare sino a rompermi il cuore, 
e di amore affogare 
e piangere. 
Di te amo i grandi occhi, 
dove sondo la voragine buia della mia ansia, 
per scoprire negli arcani 
sotto l'oceano oceani. 
Di te amo più di quanto riescano a dire 
la mia parola 
e la mia tristezza.

Vinicius De Moraes

mercoledì 25 agosto 2010

Le città invisibili


Le città invisibili


A Cloe, grande città, le persone che passano per le vie non si conoscono. Al vedersi immaginano mille cose l'uno dell'altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi. Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s'incrociano per un secondo e poi sfuggono, cercando altri sguardi, non si fermano.
Passa una ragazza che fa girare un parasole appoggiato alla spalla, e anche un poco il tondo delle anche. Passa una signora nerovestita che dimostra tutti i suoi anni, con gli occhi inquieti sotto il velo e le labbra tremanti. Passa un gigante tatuato; un uomo giovane coi capelli bianchi; una nana; due gemelle vestite di corallo. Qualcosa corre tra loro, uno scambiarsi di sguardi come linee che collegano una figura all'altra e disegnano frecce, stelle, triangoli finché tutte le combinazioni in un attimo sono esaurite, e altri personaggi entrano in scena: un cieco con un ghepardo alla catena, una cortigiana col ventaglio a piume di struzzo, un efebo, una donna-cannone. Così tra chi per caso si trova insieme a ripararsi dalla pioggia sotto il portico, o si accalca sotto un tendone del bazar, o sosta ad ascoltare la banda in piazza, si consumano incontri, seduzioni, amplessi, orge, senza che ci si sfiori con un dito, quasi senza alzare gli occhi.
Una vibrazione lussuriosa muove continuamente Cloe, la più casta delle città. Se gli uomini e donne cominciassero a vivere i loro effimeri sogni, ogni fantasma diventerebbe una persona con cui cominciare una storia d'inseguimenti, di finzioni, di malintesi, d'urti, di oppressioni, e la giostra delle fantasie si fermerebbe.


Da "Le città invisibili"di Italo Calvino.

martedì 24 agosto 2010

IMPRESSIONI




    Il verbo all'infinito

Essere creato, generarsi,

trasformare l'amore in carne e la carne in amore; 
nascere, respirare,e piangere, 
e addormentarsi e nutrirsi 
per poter piangere per poter nutrirsi; 
e svegliarsi un giorno alla luce e vedere,
 al mondo e ascoltare e 
cominciare ad amare e allora sorridere e 
allora sorridere per poter piangere 
E crescere, e sapere, ed essere , e avere e perdere, 
e soffrire, e avere orrore di essere e amare, 
e sentirsi maledetto e dimenticare tutto 
quando arriva un nuovo amore e vivere questo amore 
fino a morire e coniugare il verbo all'infinito...

Vinicius De MORAES         

domenica 15 agosto 2010

AMICI







Amici...

Ho amici che non sanno quanto sono miei amici.
Non percepiscono tutto l'amore che sento per loro né quanto siano necessari per me.
L'amicizia è un sentimento più nobile dell'amore. Questo fa sì che il suo oggetto si divida tra altri affetti, mentre l'amore è imprescindibile dalla gelosia, che non ammette rivalità.
Potrei sopportare, anche se non senza dolore, la morte di tutti i miei amori, ma impazzirei se morissero tutti i miei amici!
Anche quelli che non capiscono quanto siano miei amici e quanto la mia vita dipenda dalla loro esistenza...
Non cerco alcuni di loro, mi basta sapere che esistono. Questa semplice condizione mi incoraggia a proseguire la mia vita.  Ma, proprio perché non li cerco con assiduità, non posso dir loro quanto io li ami. Loro non mi crederebbero.
Molti di loro, leggendo adesso questa "crônica" non sanno di essere inclusi nella sacra lista dei miei amici.  Ma è delizioso che io sappia e senta che li amo, anche se non lo dichiaro e non li cerco.
E a volte, quando li cerco, noto che loro non hanno la benché minima nozione di quanto mi siano necessari, di quanto siano indispensabili al mio equilibrio vitale, perché loro fanno parte del mondo che io faticosamente ho costruito, e sono divenuti i pilastri del mio incanto per la vita.
Se uno di loro morisse io diventerei storto.
Se tutti morissero io crollerei.
E' per questo che, a loro insaputa, io prego per la loro vita.
E mi vergogno perché questa mia preghiera è in fondo rivolta al mio proprio benessere. Essa è forse il frutto del mio egoismo.
A volte mi ritrovo a pensare intensamente a qualcuno di loro.  Quando viaggio e sono di fronte a posti meravigliosi, mi cade una lacrima perché non sono con me a condividere quel piacere...
Se qualcosa mi consuma e mi invecchia è perché la furibonda ruota della vita non mi permette di avere sempre con me, mentre parlo, mentre cammino, vivendo, tutti i miei amici, e soprattutto quelli che solo sospettano o forse non sapranno mai che sono miei amici.
Un amico non si fa, si riconosce.

Vinìcius De Moraes

sabato 31 luglio 2010

LE MIE FATE






Le mie fate

Chissà se oggi si aprirà quella 
finestra?,
se le fate torneranno con i loro
sorrisi, entreranno nella mia 
anima?
si siederanno, mi faranno partecipi 
dei loro segreti?
O la vita con le sue vane movenze 
avrà ragione e mi spingerà 
nell'inutile vuoto
che uccide le speranze umane.
Io cercherò il momento opportuno 
per aspettarle e per sentire la 
musica che le precede. .
Il sole oggi sembra di umore 
sereno,
e il vento dolce di miele ; Ho 
voglia di vedere il mare .
Forse è li che troverò le mie fate
forse è li che mi aspettano.
Si perchè loro non sempre si fanno 
trovare oggi sono vicino al mare su 
uno scoglio domani vengono a casa 
mia.
sono spesso negli occhi dei 
bambini,
da mia madre che amo con tutta 
l'anima, o nelle mani delle persone 
anziane e tarde nell'età ; Ma 
spesso sono nelle cose più 
impensabili.
La luna e le stelle sono di sicuro 
tra posti che preferiscono.
Io sarò un po ovunque con gli occhi 
con il pensiero e la fantasia per 
non farmele scappare.
La dove il sole con i suoi raggi 
accarezza la guancia del mare a 
volte proprio dove si formano 
migliaia e migliaie di fiammelle 
loro si fermano e danzano, vedrò se 
riesco a trovare quel luogo
oggi .Ci andrò in punta di piedi
si perchè loro non amano il chiasso 
e preferiscono i luoghi silenziosi 
e le sabbie dorate ,
il loro massimo sono i tramonti a 
volte si dimenticano di essere 
delle fate e stanno li per tanto 
tempoIo sto ad aspettarle un po in tutti 
i posti e spero che non mi lascino 
e che trovino un po di tempo per 
me.

Biagio Merlino 2009

Tutti i diritti riservati

venerdì 30 luglio 2010

LA LUNA


Questo post è dedicato alla luna,ed è sicuramente il mio astro preferito(forse perché è fortemente presente nel mio tema natale,oppure perchè amo i misteri ,e cosa c'è di più misterioso della luna?Mi piacciono le cose belle,e che cosa c'è di più bello della luce lunare,il chiarore che è capace di diffondere nel celo, da incutere a volte quasi timore:Insomma s'è capito che l'adoro!In realtà questo post l'ho avevo già pubblicato anni fa in un'altro blog,però mi piace così tanto che ho deciso di riproporlo qui.


La luna.....
...Il celo...



CONTINUA CON LA LUNA.....

domenica 25 luglio 2010

Ali leggere di farfalla



Il pattinatore su ghiaccio statunitense Johnny Weir


Ali leggere di farfalla


Di nero mi vesto
- e mi nascondo -
per sembrare più magra
- per non sembrare -
per non apparire
confondermi tra la gente
per annullarmi così
silenzionsamente
...una piuma non fa rumore
nemmeno quando cade...
Non mangiare - sussurra la mente -
non alimentare quella vita
che ti è natura ostile
e quando è troppo il dolore nel cuore
il vuoto nello stomaco
fa ancor meno rumore.
Di nero mi vesto
e mi nascondo
vorrei tanto dormire
al mondo sparire
come farfalla volare
per smettere di soffrire
andar via per non tornare
e non per un solo secondo.
Mi aggrappo al senso della vita
quando son sicura
d'aver toccato il fondo
all'istinto promordiale
di sopravvivenza
e alle ali leggere
di quella farfalla
affido i miei neri dispiaceri
perché volino lontano...
perché non li voglio più sentire.


Daniela Rossodisera

Risorsa web:
http://www.altramusa.com/node/1919

venerdì 16 luglio 2010

"I Miserabili"





Napoleone ritratto a Waterloo


Ritratto di Victor Hugo


Uno dei miei libri preferiti sin dalla gioventù è senza dubbio "I Miserabili"di Victor Hugo,un quadro spietato delle miserie umane,ambientato nella Parigi della prima metà dell'ottocento.Vi sono in questo romanzo dei personaggi indimenticabili,ma il capitolo della disfatta di Napoleone a Waterloo (Belgio) è veramente notevole,la descrizione minuto per minuto,nemmeno fosse una partita di calcio,di quello che accadde durante la battaglia,quello che pensarono i due strateghi,Napoleone e Wellington,la certezza ,da entrambe le parti ,di non poter fallire ,la disposizione degli eserciti,le speranze di aiuti, e infine la vera disfatta, che consiste nel massacro di migliaia di uomini e cavalli.La loro tragica dipartita.

Qua sotto una parte del capitolo:

Dal libro primo

WATERLOO

Aveva perduto il senso diretto della vittoria, Napoleone? Era già
giunto fino al punto di non riconoscer lo scoglio, di non indovinare
l'agguato, di non più discernere il crollante orlo dell'abisso? Non
aveva il fiuto delle catastrofi? Egli, che nei tempi andati conosceva
tutte le strade del trionfo e che, dall'alto del suo cocchio di
lampi, le indicava col dito sovrano, aveva dunque, ora,
l'istupidimento sinistro di condurre verso i precipizî il tumultuoso
equipaggio delle sue legioni? Era preso, a quarantasei anni, da una
follìa suprema? Quel titanico cocchiere del destino non era più che
un gigantesco scavezzacollo?
Noi non lo crediamo. Il suo piano di battaglia era, per ammissione di
tutti, un capolavoro: puntar diritto sul centro della linea alleata,
fare una breccia nel nemico, tagliarlo in due, buttare la metà
britannica su Hal e la metà prussiana su Tongres, fare di Wellington
e di Blücher due tronconi, impadronirsi di Mont-Saint-Jean, prendere
Bruxelles, gettare il tedesco nel Reno e l'inglese nel mare. Tutto
ciò, per Napoleone, stava in quella battaglia; in seguito, si sarebbe
visto il da farsi.
È inutile dire che non pretendiamo far qui la storia di Waterloo. Se
una delle scene generiche del dramma che stiamo raccontando si
riallaccia a quella battaglia, non per questo siffatta storia è
compito nostro; del resto questa è già stata fatta, e magistralmente,
da Napoleone sotto un punto di vista, e da una intera pleiade di
storici, sotto un altro. Per quel che ci riguarda lasciamo gli
storici alle prese fra loro; noi siamo solo un testimone in distanza,
un viandante nella pianura, un cercatore, chino su questa terra
impastata di carne umana, che, forse, prende per realtà le apparenze;
non abbiamo il diritto di tener testa, in nome della scienza, a un
insieme di fatti nei quali v'è certo il miraggio e non abbiamo né la
pratica militare, né la competenza strategica che autorizzano un
sistema. Secondo noi, una concatenazione di casi domina dapprima a
Waterloo i due capitani; e, quando si tratta del destino, misterioso
accusato, giudichiamo come il popolo, giudice ingenuo.
IV • A
Coloro che vogliono figurarsi chiaramente la battaglia di Waterloo,
non hanno che da stendere sul suolo, col pensiero una A maiuscola. La
gamba sinistra dell'A è la strada di Nivelles, la destra la strada di
Genappe e il taglio dell'A è la strada in trincea che va da Ohain a
Braine-l'Alleud. Il vertice dell'A è Mont-Saint-Jean, dove si trova
Wellington; la punta sinistra inferiore è Hougomont, dov'è Reille con
Gerolamo Bonaparte; la punta destra inferiore è la Belle-Alliance,
dove si trova Napoleone; un po' al disotto del punto in cui il taglio
dell'A incontra la gamba destra, si trova la Haie-Sainte, mentre il
punto medio del taglio indica il punto preciso in cui fu detta
l'ultima parola della battaglia. Là venne collocato il leone, simbolo
involontario del supremo eroismo della guardia imperiale.
Il triangolo compreso nella parte superiore dell'A, fra le gambe e il
taglio è la spianata di Mont-Saint-Jean: la disputa di quella
spianata fu tutta la battaglia.
Le ali dei due eserciti si stendono a destra e a sinistra delle due
strade di Genappe e di Nivelles, d'Erlon di fronte a Picton, Reille
di fronte a Hill. Dietro la punta dell'A, dietro la spianata di Mont-
Saint-Jean, v'è la foresta di Soignes; quanto alla pianura, ci si
figuri un ampio terreno ondulato, in cui ciascuna piega domina la
seguente, salendo tutte verso Mont-Saint-Jean e facendo capo alla
foresta.
Due schiere nemiche sul campo di battaglia sono due lottatori. È un
corpo a corpo, in cui ciascuno cerca di far sdrucciolare l'altro; ci
si aggrappa a tutto, e un cespuglio è un punto d'appoggio, come
l'angolo d'un muro è un sostegno. Per la mancanza d'una bicocca alla
quale addossarsi, un reggimento cede; un lieve pendìo, una piega del
terreno, un sentiero provvidenzialmente trasversale, un bosco o un
precipizio possono arrestare il tallone di quel colosso che si chiama
un esercito ed evitargli d'indietreggiare. Chi esce dal campo è
battuto. Quindi per il capo responsabile, la necessità d'esaminare il
più piccolo ciuffo d'alberi e d'approfondire il minimo risalto.
I due generali avevano attentamente studiato la pianura di Mont-
Saint-Jean, detta oggi di Waterloo. Fin dall'anno precedente,
Wellington, con previdente sagacia, l'aveva esaminata come possibile
località da grande battaglia; su quel terreno e per quel duello, il
18 giugno, Wellington aveva il lato buono, Napoleone quello cattivo.
L'esercito inglese era in alto, l'esercito francese in basso.
Tratteggiar qui l'aspetto di Napoleone a cavallo, col cannocchiale in
mano, sull'altura di Rossomme, all'alba del 18 giugno 1815, è quasi
superfluo: prima che lo si faccia vedere tutti l'han visto. Quel
profilo calmo sotto il piccolo cappello della scuola di Brienne,
quell'uniforme verde dai bianchi risvolti che nascondono le
decorazioni, il pastrano grigio sopra le spalline, l'estremità del
cordone rosso sotto il panciotto, i calzoni di pelle, il cavallo
bianco colla gualdrappa di velluto purpureo con gli N coronati e le
aquile, gli stivali alla scudiera, sulle calze di seta, gli speroni
d'argento e la spada di Marengo, tutta, insomma, la figura
dell'ultimo Cesare, è viva nelle immaginazioni, acclamata dagli uni,
detestata dagli altri.
Quella figura fu per lungo tempo tutta in luce, per effetto di quella
oscurità leggendaria che la maggior parte degli eroi sprigionano
intorno a loro e che vela sempre, più o meno a lungo, la verità; ma
oggi s'apron la via la storia e la luce.
Quella luce che è la storia spietata. Essa ha questa stranezza
divina, che, cioè, per quanto sia luce ed appunto perché tale, mette
spesso ombre dove si vedevano i raggi e fa dello stesso uomo due
diversi fantasmi, uno dei quali combatte l'altro, facendone
giustizia. Le tenebre del despota lottano contro il fulgore del
capitano; ne scaturisce una misura più esatta nel definitivo
apprezzamento dei popoli. Babilonia violata diminuisce Alessandro;
Roma incatenata diminuisce Cesare; Gerusalemme sterminata diminuisce
Tito. La tirannia segue il tiranno: disgraziato l'uomo che lascia
dietro di sé ombre che assumono le sue forme.
V • IL «QUID OBSCURUM» DELLE BATTAGLIE
Tutti conoscono la prima fase di questa battaglia: un inizio torbido,
incerto ed esitante, minaccioso per ambo gli eserciti ma più per gli
inglesi che per i francesi.
Era piovuto tutta la notte e il terreno era stato sconvolto
dall'acquazzone; qua e là, l'acqua raccolta in pozzanghere come
tinozze, tanto che in certi punti i carriaggi dell'artiglieria
s'immergevano fino agli assi. I sottopancia dei cavalli gocciolavano
di fango liquido, e se le spighe di grano e di segala abbattute da
quella fila di carri in marcia non avessero colmato le carreggiate e
fatto un letto sotto le ruote, qualunque movimento, in particolare
nelle vallette dalla parte di Papelotte, sarebbe stato praticamente
impossibile.
La faccenda incominciò tardi. Abbiamo spiegato che Napoleone aveva
l'abitudine di tener tutta l'artiglieria in pugno come una pistola,
prendendo di mira ora questo ed ora quel punto della battaglia;
perciò aveva voluto aspettare che le batterie già pronte potessero
muoversi e galoppare liberamente. Bisognava a tale uopo che uscisse
il sole e seccasse il terreno; ma il sole non comparve. Non era più
l'appuntamento d'Austerlitz. Quando il primo colpo di cannone venne
tirato, il generale inglese Colville guardò l'orologio e constatò
ch'erano le undici e trentacinque.
L'azione s'impegnò forse con maggior furia di quanto non volesse
l'imperatore, dall'ala sinistra francese sopra Hougomont. Nello
stesso tempo Napoleone assalì il centro, gettando la brigata Quoit
sopra la Haie-Sainte, e Ney spinse l'ala destra francese contro la
sinistra inglese, che s'appoggiava su Papelotte.
L'attacco di Hougomont era un po' una finta; doveva attirare
Wellington e farlo gravitare a sinistra, secondo il piano stabilito.
Quel piano sarebbe riuscito, se le quattro compagnie delle guardie
inglesi ed i coraggiosi belgi della divisione Perponcher non avessero
solidamente tenuto la posizione; tanto che Wellington, invece di
raccogliervi grandi masse, poté limitarsi a spedirvi per tutto
rinforzo altre quattro compagnie di guardie e un battaglione del
Brunswick.
L'attacco dell'ala destra francese su Papelotte era a fondo.
Rovesciare la sinistra inglese, tagliar la strada di Bruxelles,
sbarrare eventualmente il passo ai prussiani, forzare Mont-Saint-
Jean, ributtare Wellington su Hougomont e di là su Braine-l'Alleud e
poi su Hal, era quanto poteva esserci di più chiaro.
A parte qualche incidente, quell'attacco riuscì; Papelotte fu preso e
la Haie-Sainte conquistata.
Un particolare: nella fanteria inglese, specialmente nella brigata
Kempt, v'erano moltissime reclute. Quei giovani soldati, di fronte ai
nostri temibili fantaccini, furono valorosi; seppero trarsi
intrepidamente d'impaccio, malgrado l'inesperienza, e resero
soprattutto un ottimo servizio come bersaglieri. Il soldato, quand'è
impiegato come bersagliere ed è quindi un poco abbandonato a sé,
diventa, per così dire, il proprio generale; quelle reclute
mostrarono l'iniziativa e la furia francese; quella fanteria novizia
ebbe slancio, cosa che piacque a Wellington.
Dopo la presa della Haie-Sainte, la battaglia fu incerta.
V'è in quella giornata campale, dal mezzodì alle quattro, un
intervallo oscuro; il periodo intermedio è quasi indistinto con una
oscura mischia: è come immerso nel crepuscolo. Si scorgono in quella
nebbia grandi fluttuazioni, un vertiginoso miraggio, l'apparato della
guerra d'allora, pressoché ignorato oggidì: i colbacchi
impennacchiati, le fonde ondeggianti, le bandoliere incrociate, le
giberne colla granata, i dolman degli ussari, i rossi stivali dalle
mille pieghe, i pesanti schako inghirlandati di passamani, la
fanteria quasi nera di Brunswick mista a quella scarlatta
d'Inghilterra, i soldati inglesi, con grossi cuscinetti bianchi di
forma circolare, al posto delle spalline, i cavalleggeri annoveresi,
col loro elmo di cuoio a liste di ottone e la criniera rossa, gli
scozzesi, ginocchia nude e sottanelle quadrettate, le grandi ghette
bianche dei nostri granatieri; quadri e non linee strategiche, quel
che ci vuole per Salvator Rosa e non per Gribeauval.
Una parte di tempesta si accompagna sempre ad una battaglia. Quid
obscurum, quid divinum; ed ogni storico rivela ciò che gli piace, in
quelle confusioni. Qualunque sia il piano dei generali, l'urto delle
masse armate ha riflussi incalcolabili; durante l'azione, i piani dei
due capi entrano l'uno nell'altro e si deformano reciprocamente. Il
tal punto del campo di battaglia divora più combattenti del tal
altro, come quei terreni più o meno spugnosi, che bevono più o meno
presto l'acqua. Si è così obbligati a rovesciare là più soldati di
quanto non si vorrebbe; e queste spese sono impreviste. La linea di
battaglia ondeggia, serpeggia come un filo, rivoli di sangue non
previsti scorrono, le fronti degli eserciti ondeggiano ed i
reggimenti, entrando od uscendo, forman capi o golfi, tutti quegli
scogli si muovono continuamente, gli uni davanti agli altri. Dov'era
la fanteria, sopraggiunge l'artiglieria; i battaglioni sono fumacchi;
lì v'era qualcosa e, quando cercate, tutto è scomparso; i vuoti si
spostano, mentre avanzano e si ritirano sinistre pieghe; una specie
di vento sepolcrale spinge e ricaccia, gonfia e disperde quelle
tragiche moltitudini. Che è una mischia? È un'oscillazione:
l'immobilità d'un piano matematico esprime un minuto, non già una
giornata. Per dipingere una battaglia, ci vogliono quei possenti
pittori che hanno il caos nel pennello. Rembrandt vale di più di Van
Der Meulen, il quale, veridico a mezzogiorno, mente alle tre. La
geometria inganna e solo l'uragano è vero; questo dà a Folard il
diritto di contraddire Polibio. Aggiungiamo che v'è sempre un istante
in cui la battaglia degenera in zuffa, si fa particolare, si frantuma
in innumerevoli azioni singole che, per citare l'espressione dello
stesso Napoleone, «appartengono piuttosto alla biografia dei
reggimenti che alla storia dell'esercito». Lo storico, in tal caso,
ha l'evidente diritto di riassumere; non può afferrare altro che i
principali contorni della lotta. A nessun narratore, per coscienzioso
che sia, è dato di fissare in modo assoluto la forma di
quell'orribile nube che si chiama una battaglia. E questo, vero di
tutti gli urti armati, è particolarmente applicabile a Waterloo.
Pure, nel pomeriggio, ad un certo punto, la battaglia si precisò.
VI • LE QUATTRO POMERIDIANE
Verso le quattro, la situazione dell'esercito inglese era grave. Il
principe d'Orange comandava il centro, Hill l'ala destra, Picton la
sinistra; il principe d'Orange, smarrito e intrepido, gridava ai
belga-olandesi: Nassau! Brunswick! Mai indietro! Hill, spossato,
veniva ad addossarsi a Wellington e Picton era morto. Nello stesso
minuto in cui gli inglesi portavan via ai francesi la bandiera del
105° reggimento di fanteria, i francesi uccidevano il generale Picton
con una palla attraverso il capo. La battaglia, per Wellington, aveva
due caposaldi, Hougomont e la Haie-Sainte: Hougomont resisteva
ancora, ma bruciava, e Haie-Sainte era stata presa; del battaglione
tedesco che la difendeva sopravvivevano soltanto quarantadue uomini,
e tutti gli ufficiali, meno cinque, erano morti o prigionieri.
Tremila combattenti si massacrarono in quella casupola; un sergente
delle guardie inglesi, primo pugilatore dell'Inghilterra, ritenuto
invulnerabile dai suoi compagni, vi fu ucciso da un tamburino
francese. Baring fu sloggiato, Alten sciabolato; parecchie bandiere
andarono perdute, fra cui una della divisione Alten ed una del
battaglione del Luneburgo, portata da un principe della famiglia
Deux-Ponts. Gli scozzesi grigi non esistevano più; i dragoni pesanti
di Ponsonby eran fatti a pezzi. Quella coraggiosa cavalleria aveva
ripiegato sotto l'urto dei lancieri di Bro e dei corazzieri di
Travers; di milleduecento cavalli ne rimanevano seicento e dei tre
luogotenenti colonnelli due erano a terra, Hamilton ferito e Mater
ucciso. Ponsonby era caduto, trafitto da sette colpi di lancia,
Gordon era morto, Marsh era morto. Due divisioni, la quinta e la
sesta, erano distrutte.
Intaccato Hougomont e presa Haie-Sainte, non restava più che un nodo,
quello del centro, che resisteva sempre: Wellington lo rinforzò,
chiamandovi Hill, da Merbe-Braine, e chiamandovi Chassé, da Brainel'Alleud.
Il centro dell'esercito inglese, un po' concavo, fittissimo e
compattissimo, era situato in buona posizione, occupava la spianata
di Mont-Saint-Jean, il villaggio dietro, davanti il pendìo, allora
piuttosto aspro, s'addossava a quella forte casa di pietra che a
quell'epoca era un bene demaniale di Nivelles e segna il punto
d'incontro delle strade; una massa del sedicesimo secolo, così
robusta, che i proiettili vi rimbalzavan sopra senza intaccarla.
Intorno alla spianata gli inglesi avevan tagliato qua e là le siepi,
aprendo cannoniere nei biancospini, mettendo una bocca da fuoco fra i
rami e intagliando feritoie nei cespugli. La loro artiglieria stava
in agguato dietro le macchie; questo lavoro punico,
incontestabilmente autorizzato dalla guerra che ammette l'imboscata,
era così ben fatto, che Haxo, mandato dall'imperatore, alle nove del
mattino, a riconoscere le batterie nemiche, non ne aveva visto nulla
ed era tornato a dire a Napoleone che non vi erano ostacoli,
all'infuori delle due barricate che chiudevano le strade di Nivelles
e di Genappe. Era la stagione in cui le messi son alte; sull'orlo
della spianata un battaglione della brigata Kempt, il 95°, armato di
carabine, era steso in mezzo alle spighe mature.
Così garantito e puntellato, il centro dell'esercito anglo-olandese
era in buona posizione. Il solo pericolo era la foresta di Soignes, a
quel tempo contigua al campo di battaglia e tagliata dagli stagni di
Groenendael e di Boitsfort: un esercito non avrebbe potuto
indietreggiare, senza frantumarsi; i reggimenti si sarebbero subito
disgregati e l'artiglieria si sarebbe perduta negli stagni. La
ritirata, secondo l'opinione di parecchi uomini del mestiere
(contestata da altri, per dire il vero), sarebbe stata un fuggi
fuggi.
Wellington aggiunse a quel centro una brigata di Chassé, levata
all'ala destra, ed una di Wincke, levata all'ala sinistra, oltre alla
divisione Clinton. Ai suoi inglesi, ai reggimenti di Halkett, alla
brigata di Mitchell, alle guardie di Maitland, diede come appoggio e
contrafforte la fanteria di Brunswick, il contingente di Nassau, gli
annoveresi di Kielmansegge e i tedeschi d'Ompteda; disponeva di
ventisei battaglioni: l'ala destra, come dice Charras, fu ripiegata
dietro il centro. Una batteria enorme era stata mascherata da sacchi
a terra nel punto dove trovasi oggi quello che si chiama «il museo di
Waterloo»; inoltre, Wellington teneva in riserva, in una piega del
terreno, i dragoni guardie del Somerset, millequattrocento cavalli.
Era l'altra metà di quella cavalleria inglese, così meritatamente
celebre; distrutto Ponsonby, restava Somerset.
La batteria che, se terminata, sarebbe stata quasi una ridotta, era
disposta dietro il muricciuolo d'un giardino, rivestito in fretta con
una copertura di sacchi di sabbia e di grosse zolle di terra.
Quell'opera non era finita: era mancato il tempo di cingerla con una
palizzata.
Wellington, inquieto ma impassibile, a cavallo tutto il giorno, nel
medesimo atteggiamento, era un poco più avanti del vecchio mulino di
Mont-Saint-Jean, che esiste ancora, sotto un olmo, che un inglese,
vandalo entusiasta, comperò poi per duecento franchi, segandolo e
portandolo via. Là Wellington fu freddamente eroico. Le palle da
cannone piovevano e l'aiutante di campo Gordon era allora caduto al
suo fianco; lord Hill, accennandogli un proiettile che scoppiava, gli
disse: «Mylord, quali sono le vostre istruzioni e che ordini ci
lascerete, se vi farete uccidere?» «Di fare come me,» rispose
Wellington. A Clinton, disse laconicamente: «Resister qui fino
all'ultimo uomo.» La giornata prendeva visibilmente una brutta piega.
Wellington gridava ai vecchi camerati di Talavera, di Vittoria e
Salamanca: «Boys, si può pensare di cedere? Pensate alla vecchia
Inghilterra!»
Verso le quattro, la linea inglese indietreggiò. Ad un tratto non si
vide più altro, sulla cresta della spianata, fuorché l'artiglieria ed
i bersaglieri; il resto sparve. I reggimenti, scacciati dalle palle
da cannone piene ed esplodenti dei francesi, ripiegarono in fondo,
dove il terreno è ancor oggi tagliato dal sentiero privato della
fattoria di Mont-Saint-Jean; con una retrocessione, la fronte di
battaglia inglese scomparve, Wellington indietreggiò: «Principio di
ritirata!» gridò Napoleone.
VII • NAPOLEONE DI BUON UMORE
L'imperatore, sebbene ammalato e disturbato a cavallo da un dolore,
non era mai stato tanto di buon umore come in quel giorno; fin dal
mattino, la sua impenetrabilità sorrideva. Il 18 giugno 1815,
quell'anima profonda, dalla maschera marmorea, splendeva in modo
abbagliante: colui ch'era stato triste ad Austerlitz, fu allegro a
Waterloo. I grandi predestinati hanno siffatti controsensi. Le nostre
gioie sono ombra; il sorriso supremo è di Dio.
Ridet Caesar, Pompeius flebit, dicevano i legionari della legione
Fulminatrice. Stavolta, Pompeo non doveva piangere; ma certo Cesare
rideva.
Fin dalla vigilia, all'una di notte, mentre esplorava a cavallo,
sotto l'uragano e la pioggia, in compagnia di Bertrand, le colline
delle vicinanze di Rossomme, soddisfatto di vedere la lunga linea dei
fuochi inglesi che illuminavan tutto l'orizzonte da Frischemont a
Braine-l'Alleud, gli era sembrato che il destino, da lui citato a
comparire a data fissa su quel campo di Waterloo, fosse esatto al
convegno. Aveva fermato il cavallo ed era rimasto qualche tempo
immobile, guardando i lampi, in ascolto del tuono; e quel fatalista
era stato sentito gettare nelle tenebre questa misteriosa frase:
«Siamo d'accordo.» Napoleone s'ingannava: non eran più d'accordo.
Non s'era concesso un minuto di sonno e tutti gli istanti di quella
notte erano contrassegnati per lui da una gioia. Aveva percorso tutta
la linea delle grandi guardie, fermandosi qua e là a parlare colle
vedette; alle due e mezzo, vicino al bosco d'Hougomont, sentito il
passo d'una colonna in marcia, aveva creduto per un momento che
Wellington indietreggiasse, tanto che aveva detto a Bertrand: È la
retroguardia inglese che indietreggia per svignarsela; farò
prigionieri i seimila inglesi giunti testé da Ostenda. Discorreva con
espansione ed aveva ritrovato la gaiezza dello sbarco del primo
marzo, quando, accennando al gran maresciallo il contadino entusiasta
del golfo Juan, aveva esclamato: Ebbene, Bertrand, ecco già un
rinforzo! La notte dal 17 al 18 giugno, scherniva Wellington:
Quell'inglesuccio ha bisogno d'una lezione, diceva Napoleone. La
pioggia andava crescendo; mentre l'imperatore parlava, tuonava.
Alle tre e mezzo del mattino aveva perduto un'illusione: alcuni
ufficiali mandati in ricognizione gli avevano annunciato che il
nemico non faceva nessun movimento. Nulla si muoveva; non era stato
spento un solo fuoco del bivacco. L'esercito inglese dormiva e il
silenzio era profondo, sulla terra; rumore solo in cielo. Alle
quattro, gli era stato condotto davanti dagli esploratori un
contadino, che aveva servito di guida a una brigata di cavalleria
inglese, probabilmente la Vivian, che si recava a prender posizione
al villaggio d'Ohain, all'estrema sinistra. Alle cinque, due
disertori belgi gli avevan riferito d'aver abbandonato allora il loro
reggimento e che l'esercito inglese aspettava la battaglia. Tanto
meglio! aveva esclamato Napoleone. Preferisco di molto abbatterli,
anziché respingerli.
La mattina, sulla scarpata all'angolo della strada di Plancenoit,
sceso da cavallo in mezzo al fango, s'era fatto portare dalla
fattoria di Rossomme un tavolo da cucina ed una sedia rustica, vi si
era seduto, con un fascio di paglia per tappeto e aveva spiegato sul
tavolo la carta del campo di battaglia dicendo a Soult: Che bella
scacchiera!
Per le piogge della notte, i convogli di viveri, impantanati nelle
strade sconvolte, non avevan potuto arrivare in mattinata e le truppe
non avevano dormito, fradice d'acqua e digiune; la cosa non aveva
impedito a Napoleone di gridare allegramente a Ney: Abbiamo dalla
nostra novanta probabilità su cento. Alle otto, era stata recata la
colazione dell'imperatore, che aveva invitato parecchi generali; e,
mentre mangiavano, avevan raccontato che Wellington, l'antivigilia,
s'era recato al ballo, a Bruxelles, in casa della duchessa Richmond.
Soult, rude uomo di guerra dalla faccia d'arcivescovo, aveva detto:
Il ballo è per oggi. L'imperatore aveva canzonato Ney, che diceva:
Wellington non sarà tanto sciocco da aspettare vostra maestà; del
resto, quest'era la sua abitudine. Scherzava volentieri, dice Fleury
di Chaboulon; Il fondo del suo carattere era d'umore giocondo, dice
Gourgaud; Abbondava di arguzie, più stravaganti che spiritose, dice
Beniamino Constant. Scherzi da gigante su cui val la pena di
insistere: era stato lui a chiamare i suoi granatieri «i brontoloni»;
dava loro pizzicotti sull'orecchio e tirava loro i baffi.
L'imperatore non faceva altro che dispetti, è la frase d'uno di essi.
Durante il misterioso tragitto dall'isola d'Elba alla Francia, il 27
febbraio, in alto mare, il brigantino da guerra francese Zeffiro
aveva incontrato il brigantino Incostante, sul quale era nascosto
Napoleone; avendo esso chiesto all'Incostante notizie di Napoleone,
l'imperatore, che portava ancora in quel momento la coccarda bianca e
amaranto seminata d'api, adottata all'isola d'Elba, aveva preso il
portavoce, ridendo, e aveva risposto: L'imperatore sta bene. Chi ride
in questo modo è in familiarità cogli eventi e Napoleone aveva avuto
parecchi accessi di questo riso, durante la colazione di Waterloo.
Dopo colazione s'era raccolto per un quarto d'ora; poi due generali
s'eran seduti sul fascio di paglia colla penna in mano e un foglio di
carta sulle ginocchia, e l'imperatore aveva dettato loro l'ordine di
battaglia.
Alle nove, nel momento in cui l'esercito francese, scaglionato e
messo in marcia su cinque colonne, s'era schierato colle divisioni su
due linee, l'artiglieria fra una brigata e l'altra, con in testa le
musiche che suonavano, fra il rullar dei tamburi e il clangore delle
trombe, vasto, possente e allegro, mare d'elmi, di sciabole e di
baionette sull'orizzonte, l'imperatore, commosso, aveva esclamato in
due riprese: «Magnifico! Magnifico!»
Fra le nove e le dieci e mezzo, cosa incredibile, tutto l'esercito
aveva preso posizione e s'era schierato su sei linee che formavano,
per ripetere l'espressione dell'imperatore «la figura di sei V».
Pochi momenti dopo la formazione della fronte di battaglia, in mezzo
a quel profondo silenzio da principio d'uragano che precede le
mischie, l'imperatore, vedendo sfilare le tre batterie da dodici,
distaccate per suo ordine dai tre corpi di Reille, d'Erlon e di Lobau
e destinate ad iniziare l'azione, battendo Mont-Saint-Jean, dov'è
l'intersezione delle strade di Nivelles e di Genappe, aveva battuto
sulla spalla di Haxo, dicendogli: Ecco ventiquattro belle figliole,
generale!
Sicuro del risultato, aveva incoraggiato con un sorriso, al suo
passaggio davanti a lui, la compagnia di zappatori del primo corpo,
che aveva scelto per barricarsi in Mont-Saint-Jean, non appena il
villaggio fosse preso. Tutta quella serenità era attraversata solo da
una frase d'altera compassione; vedendo sulla sua sinistra, in una
località dove oggi trovasi una gran tomba, raccogliersi coi loro
superbi cavalli quei mirabili scozzesi grigi, aveva detto: Peccato!
Poi era salito a cavallo; recatosi oltre Rossomme aveva scelto per
osservatorio una piccola cresta erbosa, a destra della strada da
Genappe a Bruxelles, che fu la sua seconda sosta durante la
battaglia; la terza, quella delle sette di sera, fra la Belle-
Alliance e la Haie-Sainte è da deplorare. È un poggio piuttosto alto,
che esiste ancora, dietro il quale la guardia era stata adunata, in
un declivio della pianura. Intorno a quel poggio le palle da cannone
rimbalzavano sulla massicciata della strada fino a Napoleone, che,
come a Brienne, aveva sul capo il sibilo delle palle e delle schegge
di mitraglia; vennero raccolti, quasi nel punto in cui stavano i
piedi del suo cavallo, alcuni proiettili, corrosi, vecchie lame di
sciabola e palle informi, rose dalla ruggine. Scabra rubingine.
Qualche anno fa vi si disseppellì una palla cava da sessanta libbre,
ancor carica, la miccia rotta alla base; là l'imperatore diceva alla
guida Lacoste, un contadino ostile e sgomento, che s'aggrappava alla
sella d'un ussaro e, ad ogni carica di mitraglia, si voltava cercando
di nascondersi dietro di lui: Stupido! Ti farai ammazzare nella
schiena; vergogna! Colui che scrive queste righe trovò, scavando
nella sabbia, entro la scarpata di quel poggio, i resti
dell'imboccatura d'una bomba, disgregati dall'ossido di quarantasei
anni, e alcuni vecchi tronconi di ferro che gli si spezzavan fra le
dita, come bastoni di sambuco.
Le ondulazioni delle pianure variamente inclinate, dov'ebbe luogo lo
scontro fra Napoleone e Wellington, non sono più, nessuno l'ignora,
quel che erano il 18 giugno 1815. Sottraendo da quel campo di morte
quanto serve per fargli un monumento, gli hanno tolto il suo vero
rilievo, e la storia, sconcertata, non vi si raccapezza più; per
glorificarlo, l'hanno sfigurato. Lo stesso Wellington, due anni dopo,
rivedendo Waterloo, esclamò: M'hanno cambiato il campo di battaglia!
Là dove trovasi oggidì la grande piramide di terra sormontata dal
leone, v'era una cresta che, verso la strada di Nivelles, si
raddolciva in una rampa praticabile, ma che, dalla parte di Genappe,
era quasi una scarpata. L'elevazione di quella scarpata può esser
misurata ancor oggi dall'altezza dei monticelli formati dalle due
grandi sepolture tra cui è incassata la strada da Genappe a
Bruxelles: una, la tomba inglese, a sinistra, l'altra, la tedesca, a
destra. Non v'è alcuna tomba francese; per la Francia, tutta questa
pianura è sepolcro. Grazie alle mille e mille carrettate di terra
impiegate in quella collinetta di centocinquanta piedi d'altezza e di
mezzo miglio di circuito, la spianata di Mont-Saint-Jean è oggi
accessibile con dolce pendìo; il giorno della battaglia, soprattutto
dalla parte di Haie-Sainte, era aspra e dirupata. Il versante era
tanto ripido, che i cannonieri inglesi non vedevano sotto di sé la
fattoria in fondo alla valletta, centro del combattimento; il 18
giugno 1815 le piogge avevano ancor più reso scoscesa quell'erta e il
fango rendeva più complicata la salita, giacché, non solo ci si
arrampicava, ma ci s'impantanava. Lungo la cresta della spianata
correva una specie di fossato, impossibile da indovinare a un
osservatore lontano.
Che cos'era quel fossato? Diciamolo subito. Braine-l'Alleud è un
villaggio del Belgio, Ohain un altro; questi villaggi, nascosti
entrambi nelle pieghe del terreno, sono congiunti da una strada di
circa un miglio e mezzo, che attraversa una pianura ondulata e spesso
entra e si sprofonda fra le colline come un solco, sì che in certi
punti quella strada è un precipizio. Nel 1815, come oggi, quella
strada solcava la cresta della spianata di Mont-Saint-Jean, fra le
due strade alberate di Genappe e di Nivelles; solo, essa è ora allo
stesso livello della pianura, mentre allora era una strada incassata,
alla quale furono poi prese le due scarpate per la collina monumento.
Quella strada era ed è ancora in trincea nella maggior parte del suo
percorso, profonda talvolta una dozzina di piedi, e le sue scarpate
troppo ripide crollavano qua e là, soprattutto d'inverno, sotto gli
acquazzoni; ne derivava perciò qualche disgrazia. All'ingresso di
Braine-l'Alleud la strada era così stretta, che un passante v'era
stato schiacciato da un carro, come Bernardo Debrye, mercante di
testimonia una croce di pietra, eretta vicino al cimitero, col nome
del morto, signor Bruxelles, e la data dell'infortunio febbraio 1637.
Sulla spianata di Mont-Saint-Jean, poi, era tanto profonda, che un
contadino, Matteo Nicaise, v'era stato schiacciato nel 1783 da un
frammento della scarpata, come attesta un'altra croce di pietra, il
sommo della quale è scomparso fra le zolle, ma di cui si può vedere
ancor oggi il piedestallo rovesciato sul declivio erboso a sinistra
della strada alberata, fra la Haie-Sainte e la fattoria di Mont-
Saint-Jean.
In una giornata di battaglia, quella strada incassata che nulla
indicava e che orlava la cresta di Mont-Saint-Jean, fosso in cima
alla scarpata, carreggiata nascosta nel terreno, era invisibile, che
val quanto dire terribile.
VIII • L'IMPERATORE FA UNA DOMANDA ALLA GUIDA LACOSTE
Dunque, la mattina di Waterloo, l'imperatore era contento. E aveva
ragione; il piano di battaglia da lui concepito era, come abbiam
constatato, realmente meraviglioso.
Una volta incominciata la battaglia, tutte le sue varie fasi, la
resistenza d'Hougomont, la tenacia della Haie-Sainte, Bauduin ucciso,
Foy messo fuori combattimento, l'inaspettata muraglia contro la quale
s'era infranta la brigata Soye, la fatale storditaggine di
Guilleminot, che non aveva né petardi né sacchi di polvere,
l'impantanarsi delle artiglierie, i quindici cannoni senza scorta,
rovesciati da Uxbridge in una strada incassata, lo scarso effetto
delle bombe che cadevano nel campo inglese e che, sprofondando nel
suolo ammollato dalle piogge, riuscivan solo a farne scaturire
vulcani di fango, di modo che la mitraglia si mutava in pillacchere;
l'inutilità della dimostrazione di Piré contro Braine-l'Alleud e
tutta quella cavalleria, quindici squadroni, pressapoco annientata,
l'ala destra inglese mal disturbata e l'ala sinistra mal intaccata,
lo strano malinteso di Ney, il quale, anziché scaglionarle, ammassava
le quattro divisioni del primo corpo su ventisette file di spessore,
con una fronte di duecento uomini, esposti in tal modo alla
mitraglia, le spaventose brecce delle palle da cannone in quelle
masse, le colonne d'attacco disunite, la batteria d'infilata,
bruscamente smascherata sul loro fianco, Bourgeois, Donzelot e
Durutte compromessi, Quiot respinto, il luogotenente Vieux, l'ercole
uscito dalla scuola politecnica, ferito nel momento in cui stava
sfondando a colpi di scure la porta della Haie-Sainte, sotto il fuoco
dominante della barricata inglese che sbarrava la svolta della strada
da Genappe a Bruxelles, la divisione Marcognet, presa in mezzo tra la
fanteria e la cavalleria, fucilata a bruciapelo fra le messi da Best
e Pack, sciabolata da Ponsonby; la sua batteria di sette pezzi
inchiodata, il principe di Sassonia Weimar che teneva e manteneva,
malgrado il conte d'Erlon, Frischemont e Smohain, la bandiera del
105° presa, la bandiera del 45° presa, quell'ussaro nero prussiano,
fermato dagli esploratori della colonna volante di trecento
cacciatori che battevan la campagna tra Wavre e Plancenoit, le cose
inquietanti dette da quell'uomo, il ritardo di Grouchy, i
millecinquecento uomini uccisi in meno di un'ora nel frutteto di
Hougomont e i milleottocento abbattuti in minor tempo ancora intorno
alla Haie-Sainte; tutti questi tempestosi incidenti, nubi della
battaglia davanti a Napoleone, avevano a stento turbato il suo
sguardo e non avevano per nulla fatto oscurare quella faccia
imperialmente imperturbabile. Napoleone era avvezzo a guardar fisso
la guerra; non faceva mai la straziante addizione in cifre del
particolare; poco gl'importavano le cifre, purché dessero un totale:
la vittoria. S'anco gli inizî erano malcerti, non se ne inquietava
dal momento che si credeva signore e possessore della fine; sapeva
attendere, credendosi imbattibile, e trattava il destino da pari a
pari. Pareva dicesse alla sorte: «Non oserai.»
Mezzo luce o mezzo ombra, Napoleone si sentiva protetto nel bene e
tollerato nel male; aveva, o credeva dalla sua una connivenza, si
potrebbe quasi dire una complicità degli eventi, equivalente
all'antica invulnerabilità. Eppure, quando si ha dietro di sé la
Beresina, Lipsia e Fontainebleau, sembra si possa diffidare di
Waterloo. Un misterioso corrugar di sopracciglio diventa visibile
sullo sfondo del cielo.
Nel momento in cui Wellington rinculò, Napoleone trasalì. Vide d'un
subito sguarnirsi la spianata di Mont-Saint-Jean e sparire la fronte
dell'esercito inglese: esso si ricomponeva, ma si ritirava.
L'imperatore si sollevò a metà sulle staffe e il lampo della vittoria
gli passò nello sguardo.
Wellington, addossato alla foresta di Soignes e distrutto,
significava atterrare definitivamente l'Inghilterra da parte della
Francia; significava la vendetta di Crécy, di Poitiers, di Malplaquet
e di Ramillies. L'uomo di Marengo cancellava Azincourt.
Allora l'imperatore, come se meditasse una eventualità terribile,
puntò ancor una volta il cannocchiale su tutti i punti del campo di
battaglia. La sua guardia, coll'arme al piede, dietro di lui,
l'osservava dal basso con una specie di venerazione; ed egli pensava.
Esaminava i versanti, notava i pendii, scrutava i ciuffi d'alberi, i
campi di segala, i sentieri, sembrava contasse ogni cespuglio. Guardò
con una certa fissità le barricate inglesi delle due strade: due
grandi abbattute d'alberi, quella della strada di Genappe, sotto la
Haie-Sainte, armata di due cannoni, i soli di tutta l'artiglieria
inglese che vedessero il fondo del campo di battaglia e quella della
strada di Nivelles, dove luccicavano le baionette olandesi della
brigata Chassé. Osservò vicino a quella barricata la vecchia cappella
di Saint-Nicolas, dipinta in bianco, all'angolo della scorciatoia che
va a Braine-l'Alleud, poi si chinò e parlò a bassa voce alla guida
Lacoste; la guida rispose con un cenno del capo negativo,
probabilmente perfido.
L'imperatore si risollevò e si raccolse.
Wellington aveva indietreggiato: restava soltanto da completare
quella ritirata con una disfatta. Napoleone, volgendosi bruscamente,
spedì a Parigi una staffetta a briglia sciolta, ad annunciarvi che la
battaglia era vinta.
Napoleone era uno di quei genii da cui esce il tuono: aveva trovato
in quel momento la sua folgore.
E diede ordine ai corazzieri di Milhaud d'impadronirsi della spianata
di Mont-Saint-Jean.
IX • L'IMPREVISTO
Erano tremilacinquecento e tenevano una fronte d'un quarto di lega.
Uomini giganteschi su cavalli colossali: ventisei squadroni in tutto.
Dietro di essi in appoggio, la divisione di Lefebvre-Desnouettes, i
centosei gendarmi scelti, i cacciatori della guardia,
millecentonovantasette uomini, e i lancieri della guardia,
ottocentottanta lance; portavan elmo senza criniera e corazza di
ferro battuto, le pistole d'arcione nelle fonde e la lunga sciabola
da taglio e da punta. La mattina, tutto l'esercito li aveva ammirati
quando, alle nove, al suono dei clarini e mentre le bande intonavano
il canto Vegliam sulla salvezza dell'impero, eran venuti a schierarsi
in colonna serrata, con una batteria sul fianco e una al centro, in
due file, fra la strada di Genappe e Frischemont, per prendere il
loro posto di battaglia in quella seconda linea così saggiamente
composta da Napoleone, che, avendo all'estremità sinistra i
corazzieri di Kellermann ed all'estremità destra i corazzieri di
Milhaud, aveva, per così dire, due ali di ferro.
L'aiutante di campo Bernard recò l'ordine dell'imperatore. Ney
sguainò la sciabola e prese il comando; gli enormi squadroni si
mossero.
Allora si vide uno spettacolo grandioso. Tutta quella cavalleria,
sciabole alzate, bandiere e trombe al vento, formata in colonna di
divisione, scese, con un medesimo movimento, come un sol uomo, colla
precisione d'un ariete di bronzo che apra una breccia, la collina
della Belle-Alliance, si sprofondò nella terribile bassura dove già
tanti uomini erano caduti e scomparve in mezzo al fumo; poi, uscendo
da quell'ombra, riapparve dall'altra parte della valletta, sempre
compatta e serrata, risalendo al gran trotto, attraverso un nembo di
mitraglia che le pioveva sopra, lo spaventevole declivio fangoso di
Mont-Saint-Jean. Salivano gravi, minacciosi e imperturbabili, e negli
intervalli della moschetteria e della cannonata si sentiva
quell'assordante scalpiccìo. Poiché erano due divisioni, formavan due
colonne; la divisione Wathier teneva la destra e la divisione Delord
la sinistra. Da lontano, si sarebbe creduto di veder allungarsi verso
la cresta della spianata due immensi colubri d'acciaio: fu come un
prodigio che attraversasse la battaglia.
Non s'era visto più nulla di simile, dopo la presa della grande
ridotta della Moscova da parte della cavalleria pesante; mancava
Murat, ma v'era Ney. Sembrava quella massa si fosse fatta mostro ed
avesse un'anima sola; ciascun squadrone ondeggiava, si gonfiava come
un anello del polipo, si poteva scorgere attraverso una grande nuvola
di fumo, che si lacerava qua e là; era una confusione d'elmi, di
grida e di sciabole, un tempestoso sobbalzar di groppe di cavalli tra
le cannonate e le fanfare, un tumulto disciplinato e terribile: e al
disopra le corazze, come le scaglie dell'idra.
Questi racconti sembrano di un'altra età. Certo, qualcosa di simile a
quella visione appariva nelle vecchie epopee orfiche, che narrano
degli uomini-cavalli, gli antichi ippantropi, titani dalla faccia
umana e dal petto equino, il galoppo dei quali scalava l'Olimpo,
orribili, invulnerabili e sublimi: dèi e bestie.
Bizzarra coincidenza numerica, ventisei battaglioni si preparavano a
ricevere l'urto di ventisei squadroni. Dietro la cresta della
spianata, all'ombra della batteria mascherata, la fanteria inglese,
formata in tredici quadrati di due battaglioni ciascuno sopra due
linee, sette sulla prima e sei sulla seconda, col calcio del fucile
contro la spalla, prendendo di mira quel che stava per arrivare,
calma, muta ed immobile, aspettava. Non vedeva i corazzieri, i
corazzieri non la vedevano; ascoltava salire quella marea d'uomini e
sentiva accrescersi il fragore dei tremila cavalli, la percossa
alterna e simmetrica degli zoccoli al gran trotto, il fremere delle
corazze, il tintinnìo delle sciabole e una specie di grande anelito
selvaggio. Vi fu un silenzio terribile; poi, subitamente, una lunga
fila di braccia alzate che brandivan la sciabola apparve al disopra
della cresta, poi gli elmi, trombe e bandiere e tremila teste dai
baffi grigi, che gridavano: «Viva l'imperatore!» infine tutta quella
cavalleria sboccò sulla spianata, e parve il sopraggiungere d'un
terremoto.
Ad un tratto, cosa tragica, alla sinistra degli inglesi, alla nostra
destra, la testa di colonna dei corazzieri s'impennò con uno
spaventoso clamore. Giunti al punto culminante della cresta,
stremati, abbandonati alla loro furia e alla loro corsa sterminatrice
sui quadrati e sui cannoni, i corazzieri s'eran visto davanti, fra sé
e gli inglesi, un fossato, anzi una fossa: era la strada incassata
d'Ohain.
Momento spaventoso. Il precipizio era lì, inatteso e spalancato, a
picco sotto le zampe dei cavalli, profondo due tese fra la duplice
scarpata; la seconda fila vi spinse dentro la prima, la terza vi
spinse la seconda. I cavalli si rizzavano e si buttavano indietro,
cadendo sulla schiena e dimenando in aria le quattro zampe,
schiacciando e ribaltando i cavalieri. Impossibile indietreggiare.
L'intera colonna era un proiettile e la forza destinata a schiacciare
gli inglesi schiacciò i francesi; l'inesorabile baratro non poteva
arrendersi se non colmato e cavalieri e cavalli vi rotolarono alla
rinfusa, fracassandosi gli uni cogli altri e formando una sola massa
di carne; poi quando quella fossa fu piena d'uomini viventi, fu
possibile camminar loro sopra, ed il resto passò. Quasi un terzo
della brigata Dubois precipitò in quell'abisso.
Questo episodio segnò l'inizio della battaglia perduta.
Una tradizione locale, esagerata evidentemente, dice che duemila
cavalli e millecinquecento uomini rimasero sepolti nella strada
incassata d'Ohain; questa cifra, verosimilmente, comprende tutti gli
altri cadaveri gettati in quel baratro il giorno dopo il
combattimento. Notiamo di sfuggita che quella brigata Dubois, così
funestamente messa alla prova, era la stessa che un'ora prima,
caricando da sola, s'era impadronita della bandiera del battaglione
del Luneburgo.
Napoleone, prima d'ordinare quella carica dei corazzieri di Milhaud,
aveva scrutato il terreno; ma non aveva potuto scorgere quella strada
in trincea, che non formava la minima ruga alla superficie del suolo.
Pure, avvisato e messo in sospetto dalla cappelletta bianca che ne
occupa l'angolo colla strada di Nivelles, aveva fatto, probabilmente
nell'eventualità d'un ostacolo, una domanda alla guida Lacoste; e la
guida aveva risposto di no. Si potrebbe quasi dire che da quel cenno
del capo d'un contadino sia uscita la rovina di Napoleone; ma dovevan
sorgere ancora altre fatalità.
Era possibile che Napoleone vincesse quella battaglia? No,
rispondiamo. Perché? Per via di Wellington? Per via di Blücher? No:
per via di Dio.
Bonaparte vincitore a Waterloo, non era più ammissibile dalla legge
del secolo decimonono; stava preparandosi un'altra serie di fatti,
nei quali non v'era più posto per Napoleone. Da molto tempo la
cattiva volontà degli eventi s'era manifestata: era tempo che
quell'uomo cadesse.
L'eccessivo peso di quell'uomo nel destino umano turbava
l'equilibrio. Quell'individuo contava da solo più di tutto il resto
dell'universo; e codeste pletore di tutta la vitalità umana
concentrata in una sola testa, di tutto il mondo che sale nel
cervello d'un uomo, sarebbero mortali per la civiltà, se dovessero
durare. Era giunto per l'incorruttibile equità suprema il momento di
riflettere. Probabilmente, i principî e gli elementi dai quali
dipendevano le gravitazioni regolari nell'ordine morale come
nell'ordine materiale, si lagnavano; il sangue fumante, il
rigurgitare dei cimiteri, le madri in lagrime sono arringhe
terribili; e quando la terra soffre d'un sovraccarico, vi sono
misteriosi gemiti dell'ombra, che l'abisso sente.
Napoleone era stato denunciato nell'infinito e la sua caduta era
decisa. Egli era d'ostacolo a Dio.
Waterloo non è una battaglia: è il mutamento di fronte dell'universo.
X • LA SPIANATA DI MONT-SAINT-JEAN
Contemporaneamente al precipizio, si smascherò la batteria.
Sessanta cannoni e tredici quadrati fulminavano a bruciapelo i
corazzieri: l'intrepido Delord fece il saluto militare alla batteria
inglese.
Tutta l'artiglieria volante inglese era rientrata al galoppo nei
quadrati. I corazzieri non ebbero nemmeno un istante di sosta; il
disastro della strada incassata li aveva decimati, ma non
scoraggiati. Eran di quegli uomini che, diminuendo di numero,
aumentano di coraggio.
Solo la colonna Wathier aveva sofferto del disastro; la colonna
Delord, che Ney aveva fatto poggiare verso sinistra, come se
presentisse l'agguato, era giunta intera, ed i corazzieri si
precipitarono sui quadrati inglesi, ventre a terra, a briglia
sciolta, colla sciabola fra i denti e la pistola in pugno: ecco in
che modo si svolse l'attacco.
Vi sono momenti, nelle battaglie, in cui l'anima indurisce l'uomo
fino al punto di mutare il soldato in statua, in cui tutta quella
carne si fa granito. I battaglioni inglesi, assaliti disperatamente,
non si mossero d'un palmo.
Allora si vide una cosa spaventosa. Tutti i lati dei quadrati inglesi
furono assaliti contemporaneamente e un vortice frenetico li avvolse,
ma quella fredda fanteria rimase impassibile. La prima fila, col
ginocchio a terra, riceveva i corazzieri sulle baionette e la seconda
fila li fucilava; dietro la seconda fila, i cannonieri caricavano i
pezzi e la fronte del quadrato s'apriva, lasciava passare un'eruzione
di mitraglia e si richiudeva. I corazzieri rispondevano schiacciando;
i loro grossi cavalli s'impennavano, scavalcavano le file, saltavano
al di là delle baionette e ricadevano, giganteschi, in mezzo a quei
quattro muri viventi; se le cannonate facevan dei vuoti fra i
corazzieri, i corazzieri facevan delle brecce nei quadrati. File
intere d'uomini sparivano, stritolate sotto i cavalli e le baionette
s'immergevano nei ventri di quei centauri; donde una deformità di
ferite quale non si vide mai, forse, altrove. I quadrati, corrosi da
quella cavalleria forsennata, si restringevano senza vacillare e,
inesauribili di mitraglia, pareva esplodessero in mezzo agli
assalitori. L'immagine di quel combattimento era mostruosa; quei
quadrati non eran più battaglioni, erano crateri; quei corazzieri non
eran più corazzieri, eran tempesta. Ogni quadrato era un vulcano
assalito da una nube: la lava si batteva contro la folgore.
Il quadrato estremo di destra, il più esposto di tutti, perché non
fiancheggiato, fu quasi annientato fin dai primi urti. Era formato
dal 75° reggimento d'highlanders; nel centro di esso il suonatore di
cornamusa, intanto che intorno a lui si sterminavano, abbassando in
una profonda disattenzione lo sguardo malinconico, pieno di riflessi
delle foreste e dei laghi, seduto sopra un tamburo, col pibroch sotto
il braccio, suonava i motivi della montagna. Quegli scozzesi morivano
pensando al Ben Lothian, come i greci pensando ad Argo. La sciabola
d'un corazziere, abbattendo il pibroch e il braccio che lo portava,
fece cessare il canto, uccidendo il cantore.
I corazzieri, relativamente poco numerosi, assottigliati dalla
catastrofe del precipizio, avevan là contro quasi tutto l'esercito
inglese; ma si moltiplicavano ed ogni uomo ne valeva dieci. Nel
frattempo, alcuni battaglioni annoveresi ripiegarono; Wellington lo
vide e pensò alla sua cavalleria. Se Napoleone, in quello stesso
momento, avesse pensato alla sua fanteria, avrebbe vinto la
battaglia; quella dimenticanza fu il suo grande errore fatale.
Ad un tratto i corazzieri, da assalitori si sentirono assaliti:
avevano a tergo la cavalleria inglese. Davanti ad essi i quadrati,
alle spalle Somerset, vale a dire i millequattrocento dragoni
guardie. Somerset aveva alla destra Dornberg, coi cavalleggeri
tedeschi, ed alla sinistra Trip, coi carabinieri belgi; ed i
corazzieri attaccati di fianco e di fronte, davanti e dietro, dalla
fanteria e dalla cavalleria, dovettero far fronte da ogni lato. Ma
che importava loro? Erano un turbine e il loro ardire divenne
indescrivibile.
Oltre a ciò, avevan dietro di sé la batteria, sempre tuonante: e non
ci voleva meno di questo, perché fossero feriti nella schiena. Una
delle loro corazze, bucate alla scapola sinistra da una scheggia di
mitraglia, è visibile nella collezione chiamata il museo di Waterloo.
Per simili francesi, non ci voleva meno di simili inglesi. Non fu più
una mischia, ma una lava, una furia, un vertiginoso trasporto d'anime
e di coraggio, un uragano di spade simili a lampi; in un attimo, i
millequattrocento dragoni furono soltanto ottocento, e Fuller, il
loro tenente colonnello, cadde morto. Ney accorse coi lancieri e coi
cacciatori di Lefebvre-Desnouettes e la spianata di Mont-Saint-Jean
fu presa e ripresa e ancor presa; i corazzieri lasciavan la
cavalleria per tornare alla fanteria o, per dir meglio, tutto quel
formidabile groviglio si batteva, senza che gli uni lasciassero
andare gli altri. I quadrati resistevan sempre. Vi furono dodici
assalti e Ney ebbe quattro cavalli uccisi sotto di lui; la metà dei
corazzieri rimase sul campo, in quella lotta che durò due ore.
L'esercito inglese ne fu profondamente scosso. Non v'è dubbio che, se
non fossero stati indeboliti al primo cozzo dal disastro della strada
incassata, i corazzieri avrebbero sfondato il centro e decisa la
vittoria. Quella cavalleria straordinaria fece rimanere di sasso
Clinton, che pure aveva veduto Talavera e Badajoz; Wellington, vinto
per tre quarti, ammirava con calma eroica e diceva a bassa voce:
«Sublime!»
I corazzieri annientarono sette quadrati su tredici, presero ed
inchiodarono sessanta pezzi d'artiglieria e tolsero ai reggimenti
inglesi sei bandiere, che tre corazzieri e tre cacciatori della
guardia andarono a portare all'imperatore, davanti alla fattoria
della Belle-Alliance.
La situazione di Wellington era peggiorata. Quella strana battaglia
era come un duello fra due feriti accaniti che, pur combattendo e
tenendosi sempre testa, vadano entrambi perdendo il sangue: quale dei
due cadrà per il primo?
La lotta della spianata continuava. Fin dove giunsero i corazzieri?
Nessuno saprebbe dirlo; ma è certo che, il giorno dopo la battaglia,
un corazziere e il suo cavallo furono trovati morti nell'armatura
della pesa pubblica di Mont-Saint-Jean, nel punto stesso in cui
s'incontrano e si tagliano le quattro strade di Nivelles, di Genappe,
di La Hulpe e di Bruxelles. Quel cavaliere aveva attraversato le
linee inglesi. Uno degli uomini che tolsero di là quel cadavere vive
ancora a Mont-Saint-Jean e si chiama Dehaze; aveva allora
diciott'anni.
Wellington si sentiva in bilico: la crisi era vicina.
I corazzieri non erano riusciti nello scopo, nel senso che il centro
non era stato sfondato; la spianata apparteneva a tutti e a nessuno,
ma rimaneva in realtà, per la massima parte, agli inglesi. Wellington
teneva il villaggio e la pianura dominante, Ney teneva soltanto la
cresta e il pendìo; da ambo i lati i combattimenti sembravano
radicati in quel suolo di morte. Ma l'indebolimento degli inglesi
pareva irrimediabile e l'emorragia di quell'esercito era orribile.
Kempt, all'ala sinistra, insisteva per aver rinforzi: Non ve ne sono,
rispondeva Wellington, si faccia ammazzare! Quasi nello stesso
istante, singolare accostamento che dipinge l'esaurimento dei due
eserciti, Ney chiedeva fanteria a Napoleone e Napoleone esclamava:
Fanteria? E dove vuole che la prenda? Vuole che la fabbrichi?
Pure, l'esercito inglese era più gravemente ammalato. Le furiose
spinte di quei grossi squadroni dalle corazze ferrate e dai petti
d'acciaio avevan stritolato la fanteria: pochi uomini intorno ad una
bandiera indicavano il posto d'un reggimento e certi battaglioni
erano comandati solo da un capitano o da un tenente; la divisione
Alten, già tanto maltrattata alla Haie-Sainte, era quasi distrutta,
gli intrepidi belgi della brigata Van Kluze seminavano coi loro corpi
i campi di segale, lungo la strada di Nivelles, e quasi più nulla
rimaneva di quei granatieri olandesi che, nel 1811, frammisti in
Spagna alle nostre file, combattevano Wellington, e che nel 1815,
collegati cogli inglesi, combattevano Napoleone. Le perdite
d'ufficiali erano considerevoli. Lord Uxbridge, che l'indomani fece
seppellire la propria gamba, aveva un ginocchio fracassato; e se
dalla parte dei francesi, in quella lotta dei corazzieri, Delord
Lhéritier, Colbert, Dnop, Traves e Blancard erano fuori
combattimento, dalla parte degli inglesi Alten era ferito, Barne
ferito, Delancey morto, Von Merlen morto, Ompteda morto, tutto lo
stato maggiore di Wellington era decimato e l'Inghilterra aveva la
peggio in quel sanguinoso equilibrio. Il secondo reggimento delle
guardie a piedi aveva perduto cinque tenenti colonnelli, quattro
capitani e tre alfieri; il primo battaglione del 30° fanteria aveva
perduto ventiquattro ufficiali e centodieci soldati; il 79° da
montagna aveva ventiquattro ufficiali feriti, diciotto ufficiali
morti, quattrocentocinquanta soldati morti. Gli ussari annoveresi di
Cumberland, tutto un reggimento, con alla testa il suo colonnello
Hacke, il quale doveva più tardi venir processato e radiato dai
ruoli, avevan voltato le spalle alla mischia ed erano in fuga nella
foresta di Soignes, seminando lo scompiglio fino a Bruxelles. I
carriaggi, le prolunghe, i bagagliai, le carrette piene di feriti,
vedendo che i francesi guadagnavan terreno e s'avvicinavano alla
foresta, vi si precipitavano; gli olandesi, sciabolati dalla
cavalleria francese, gridavano: All'armi! e da Vert-Cocou fino a
Groenendael, sopra una lunghezza di quasi due leghe nella direzione
di Bruxelles v'era, stando ai testimoni che esistono ancora, una
confusione di fuggiaschi. Il panico fu tale, che raggiunse il
principe di Condé a Malines e Luigi XVIII a Gand. Eccettuate la
debole riserva scaglionata dietro l'ambulanza stabilita nella
fattoria di Mont-Saint-Jean e le brigate Vivian e Vandeleur, che
fiancheggiavano l'ala sinistra, Wellington non aveva più cavalleria;
molte batterie erano smontate. Questi fatti sono confessati da
Siborne; e Pringle, esagerando il disastro, arriva perfino a dire che
l'esercito anglo-olandese era ridotto a trentaquattromila uomini. Il
duca di ferro restava calmo; ma gli si erano sbiancate le labbra. Il
delegato austriaco Vincent e il delegato spagnuolo Avala, presenti
alla battaglia nello stato maggiore inglese, credettero il duca
perduto: alle cinque, Wellington guardò l'orologio e fu sentito
mormorare questa cupa frase: «O Blücher, o la notte!»
In quel momento, all'incirca, una lontana linea di baionette
lampeggiò sulle alture, dalla parte di Frischemont.
Eccoci allo scioglimento di questo gigantesco dramma.
XI • CATTIVA GUIDA A NAPOLEONE, BUONA A BÜLOW
È noto il doloroso inganno di Napoleone: Grouchy sperato, e Blücher
sopraggiunto. La morte, invece della vita.
Il destino ha di queste svolte: al posto dell'atteso trono del mondo,
si scorge Sant'Elena. Se il pastorello che serviva di guida a Bülow,
luogotenente di Blücher, gli avesse consigliato di sboccare dalla
foresta sopra Frischemont, anziché sotto Plancenoit, la forma del
secolo decimonono sarebbe forse stata diversa, poiché Napoleone
avrebbe vinta la battaglia di Waterloo. Da qualunque altra strada che
non fosse quella sotto Plancenoit l'esercito prussiano avrebbe fatto
capo ad un precipizio insormontabile dalle artiglierie e Bülow non
sarebbe giunto: e con un'ora di ritardo (lo dichiara il generale
prussiano Muffling) Blücher non avrebbe più trovato Wellington in
piedi e «la battaglia sarebbe stata perduta».
Come si vede, era tempo che Bülow arrivasse; e del resto, aveva
tardato molto. Aveva bivaccato a Dion-le-Mont, ed era partito fin
dall'alba, ma le strade erano impraticabili e le divisioni s'erano
impantanate; i solchi delle carreggiate giungevano fino ai mozzi
delle ruote dei cannoni. Inoltre, era stato necessario passare la
Dyle sullo stretto ponte di Wavre; e poiché la via che conduceva al
ponte era stata incendiata dai francesi, i cassoni e le carrette
dell'artiglieria, non potendo passare fra due ali di case in fiamme,
avevano dovuto aspettare che fosse spento il fuoco. A mezzogiorno,
l'avanguardia di Bülow non aveva potuto raggiungere Chapelle-Saint-
Lambert.
Se l'azione fosse incominciata due ore prima, sarebbe finita alle
quattro e Blücher sarebbe caduto in pieno sopra una battaglia già
vinta da Napoleone. Siffatti sono i casi immensi, proporzionati ad un
infinito che ci sfugge.
Fin da mezzogiorno l'imperatore, per il primo, aveva scorto col suo
cannocchiale qualche cosa all'estremo orizzonte, che aveva attirato
la sua attenzione; aveva detto: «Vedo laggiù una nube che mi dà
l'aria di esser un nerbo di truppe.» Poi aveva chiesto al duca di
Dalmazia: «Soult, che cosa vedete verso Chapelle-Saint-Lambert?» e il
maresciallo, impugnando il cannocchiale, aveva risposto: «Quattro o
cinquemila uomini, sire: Grouchy, evidentemente.» Pure, quella cosa
restava immobile, in mezzo alla nebbia. Tutti i cannocchiali dello
stato maggiore avevano studiato la «nube» segnalata dall'imperatore;
alcuni avevano detto: «Sono colonne che fanno una sosta,» altri, la
maggior parte, avevan detto: «Sono alberi.» La verità è che la nube
non si muoveva, e l'imperatore aveva distaccato in ricognizione verso
quel punto oscuro la divisione di cavalleria leggera di Domon.
Infatti, Bülow non s'era mosso. La sua avanguardia era debolissima e
non poteva far nulla; doveva attendere il grosso del corpo d'esercito
ed aveva l'ordine di concentrarsi, prima d'entrare in linea. Ma alle
cinque, visto il pericolo di Wellington, Blücher ordinò a Bülow
d'attaccare e disse questa frase significativa: «Bisogna far prendere
fiato all'esercito inglese.»
Poco dopo, le divisioni Losthin, Hiller, Hacke e Ryssel si spiegavano
in linea davanti al corpo di Lobau; la cavalleria del principe
Guglielmo di Prussia sboccava dal bosco di Parigi, Plancenoit era in
fiamme e le cannonate prussiane incominciavano a piovere fin nelle
file della guardia, in riserva dietro Napoleone.
XII • LA GUARDIA
Il resto è noto: l'irruzione d'un terzo esercito, la battaglia
spostata, ottantasei bocche da fuoco che tuonano contemporaneamente,
Pirch che sopravviene con Bülow, la cavalleria di Zieten, guidata da
Blücher in persona, i francesi ricacciati, Marcognet spazzato via
dalla spianata d'Ohain, Durutte sloggiato da Papelotte, Donzelot e
Quiot costretti a indietreggiare, Lobau preso d'infilata, una nuova
battaglia che si precipita, sul cader della notte, sopra i nostri
reggimenti smantellati, l'intera linea inglese che riprende
l'offensiva e si spinge avanti, la gigantesca breccia aperta
nell'esercito francese, la mitraglia inglese e la prussiana che
s'aiutan fra loro, lo sterminio, il disastro sulla fronte, sui
fianchi e la guardia, che entra in linea sotto quello spaventoso
crollo.
Poiché sentiva d'andare a morire, essa gridò: «Viva l'imperatore!» La
storia non ha nulla di più commovente di codesta agonia che esplode
in acclamazioni.
Il cielo era stato coperto tutto il giorno. All'improvviso, in quello
stesso momento (erano le otto di sera), le nuvole si squarciarono
sull'orizzonte e lasciaron passare, attraverso gli olmi della strada
di Nivelles, il grande e sinistro fulgore del sole di porpora che
tramontava: ad Austerlitz, era stato visto sorgere.
Ogni battaglione della guardia, in quel tragico finale, era comandato
da un generale: erano presenti Friant, Michel, Roguet, Harlet,
Mallet, Poret di Morvan. Quando gli alti colbacchi dei granatieri
della guardia, col gran fregio metallico in forma d'aquila,
apparvero, simmetrici, allineati, tranquilli e superbi nella foschia
di quella zuffa, il nemico sentì il rispetto della Francia; credette
di vedere venti vittorie entrare sul campo di battaglia ad ali
spiegate e coloro ch'eran vincitori, ritenendosi vinti,
indietreggiarono. Ma Wellington gridò: In piedi, guardie, e mirate
giusto! e il reggimento delle guardie, sdraiato dietro le siepi,
s'alzò; un nugolo di mitraglia crivellò la bandiera tricolore,
fremendo intorno alle nostre aquile, tutti si scagliarono e
incominciò la suprema carneficina. La guardia imperiale sentì
nell'ombra che l'esercito fuggiva intorno ad essa, sentì il grande
crollo della disfatta, sentì il Si salvi chi può, che aveva
sostituito il Viva l'imperatore; e, colla fuga dietro di sé, continuò
ad avanzare, sempre più fulminata e sempre più morente ad ogni passo
che faceva. Non vi furono né dubbiosi, né timidi, e il soldato, fu
eroe al pari del generale; non uno mancò al suicidio.
Ney, smarrito, grande di tutta l'altezza della morte accettata,
s'offriva a tutti i colpi, in quella tormenta. Là ebbe il quinto
cavallo ucciso sotto di sé; sudato, cogli occhi fiammeggianti e la
schiuma alle labbra, coll'uniforme sbottonata, una spallina tagliata
in mezzo dalla sciabolata d'un horse guard e l'aquila metallica della
decorazione ammaccata da una palla, sanguinante, infangato e
magnifico, con in pugno una spada spezzata, diceva: Venite a vedere
come muore un maresciallo di Francia sul campo di battaglia! Invano:
egli non morì. Feroce e indignato, buttava in viso a Drouet d'Erlon
questa domanda: E tu, non ti fai uccidere? E gridava in mezzo a tutte
quelle cannonate che schiacciavano un pugno d'uomini: Non v'è dunque
nulla per me? Oh, vorrei che tutte queste palle inglesi m'entrassero
nel ventre! Tu eri serbato a palle francesi, disgraziato!
XIII • LA CATASTROFE
La disfatta, dietro la guardia, fu tremenda.
L'esercito ripiegò bruscamente da tutte le parti ad un tempo, da
Hougomont, dalla Haie-Sainte, da Papelotte e da Plancenoit. Il grido:
Tradimento! fu seguito dal grido: Si salvi chi può! Lo sbandarsi d'un
esercito è simile al disgelo: tutto s'inflette, si fende,
scricchiola, galleggia, rotola, s'urta, s'affretta, precipita; è una
disgregazione incredibile. Ney, fattosi prestare un cavallo, vi balza
sopra e, senza cappello, senza cravatta, senza spada si mette di
traverso sulla strada di Bruxelles, fermando contemporaneamente
inglesi e francesi; tenta di trattenere l'esercito, lo chiama e
l'insulta e sembra s'aggrappi alla disfatta. Ma viene lasciato
indietro; i soldati lo fuggono, gridando: Viva il maresciallo Ney!
Due reggimenti di Durutte vanno e vengono, sgomenti e come
sballottati fra le sciabole degli ulani ed i fucili delle brigate di
Kempt, di Best, di Pack e di Rylandt. La peggior mischia è la
disfatta poiché gli amici s'uccidono fra loro, per sfuggire, e gli
squadroni e i battaglioni si frangono e disperdono gli uni contro gli
altri, enorme schiuma della battaglia. Lobau ad una estremità e
Reille all'altra sono travolti dall'ondata: invano Napoleone erge una
muraglia con quello che gli rimane della guardia; invano impiega in
un ultimo sforzo i suoi squadroni di scorta. Quoit indietreggia
davanti a Vivian, Kellermann davanti a Vendeleur, Lobau davanti a
Bülow, Morand di fronte a Pirch, Domon e Subervic di fronte al
principe Guglielmo di Prussia; Guyot, che ha condotto alla carica gli
squadroni dell'imperatore, cade sotto i piedi dei dragoni inglesi.
Napoleone corre al galoppo sulle orme dei fuggiaschi, li arringa, li
sollecita, li minaccia e li supplica; ma tutte quelle bocche che al
mattino gridavano: Viva l'imperatore! rimangono spalancate: è molto
se lo riconoscono. La cavalleria prussiana, sopraggiunta in quel
mentre, si slancia, vola, sciabola, taglia, fa a pezzi, uccide,
stermina. I carriaggi si danno alla fuga in corsa, i cannoni
scappano; i soldati dell'artiglieria staccano i cassoni e ne prendono
i cavalli per fuggire: le carrette ribaltate colle quattro ruote in
aria ingombrano la strada e sono cagione di massacro. Ci si
schiaccia, ci si pigia, si cammina sui morti e sui vivi; le braccia
sono come paralizzate e una vertiginosa moltitudine riempie le
strade, i sentieri, i ponti, le pianure, le colline, le valli e i
boschi, strabocchevolmente ingombrati da quell'evasione di
quarantamila uomini. Urli, disperazioni, zaini e fucili buttati nei
campi di segale, non più camerati, non più ufficiali, non più
generali, uno spavento inesprimibile, Zieten che sciabola la Francia
a suo piacimento, i leoni diventati pecore: ecco che cosa fu quella
fuga.
A Genappe venne fatto un tentativo di resistere, di far fronte, di
tener duro. Lobau riunì trecento uomini e venne barricato l'ingresso
del villaggio; ma alla prima raffica della mitraglia prussiana tutti
si diedero alla fuga e Lobau fu preso. Si vede ancor oggi quella
scarica di mitraglia impressa sulle facciate d'una vecchia bicocca in
mattoni, a destra della strada, pochi minuti prima d'entrare in
Genappe. I prussiani si gettarono in Genappe, certo furiosi d'esser
così poco vincitori, e l'inseguimento fu mostruoso, perché Blücher
aveva ordinato lo sterminio. Era stato Roguet a dare quel tristo
esempio di minacciare di morte qualunque granatiere francese che gli
avesse portato un prigioniero prussiano: ma Blücher superò Roguet. Il
generale della giovane guardia, Duhesme, addossato all'uscio d'un
albergo di Genappe, cedette la spada a un ussaro della Morte, che la
prese ed uccise il prigioniero. La vittoria finì coll'assassinio dei
vinti. Poiché siamo la storia, puniamo: il vecchio Blücher si
disonorò. Ma quella ferocia portò al colmo il disastro: la disperata
rotta attraversò Genappe, attraversò Quatre-Bras, attraversò
Gosselies, attraversò Frasnes, attraversò Charleroi, attraversò Thuin
e si fermò solo alla frontiera. Ahimè, chi fuggiva in quel modo? La
grande armata!
Quella vertigine, quel terrore, quel rovinìo del maggior coraggio che
abbia mai fatto stupire la storia, sarebbero dunque senza causa? No:
l'ombra d'una enorme mano destra si proietta su Waterloo. È la
giornata del destino, prodotta da una forza che sta al disopra
dell'uomo; per questo le teste si curvano sgomente, per questo le
anime grandi cedono la spada; coloro che avevan vinto l'Europa
caddero atterrati senza aver più nulla da dire e da fare, perché
sentirono nell'ombra una presenza terribile. Hoc erat in fatis. Quel
giorno, si mutò la prospettiva del genere umano: Waterloo è il
cardine del secolo decimonono. La scomparsa del grand'uomo era
necessaria all'avvento del gran secolo e qualcuno al quale non si può
ribattere se ne incaricò. Il panico degli eroi si spiega: nella
battaglia di Waterloo, più che una nube, è stata una meteora, è
passato Dio.
Sul cader della notte, in un campo vicino a Genappe, Bernard e
Bertrand agguantarono per un lembo della giubba e fermarono un uomo
torvo, pensoso e sinistro il quale, trascinato fin lì dalla corrente
della disfatta, era sceso di sella e, dopo aver passato sotto il
braccio la briglia del cavallo, se ne tornava collo sguardo smarrito,
solo, verso Waterloo. Era Napoleone che tentava ancora d'andare
avanti, immenso sonnambulo di quel sogno crollato.
XIV • L'ULTIMO QUADRATO
Alcuni quadrati della guardia, immobili nell'impetuosa corrente della
disfatta, come le rocce nell'acqua che scorre, resistettero fino a
notte. Scendeva la notte e, con lei, la morte; essi attesero la
duplice ombra e, incrollabili, se ne lasciarono ravvolgere: ciascun
reggimento, isolato dagli altri, rotto da ogni parte, periva per
conto proprio. Per quest'azione estrema, alcuni avevan preso
posizione sulle alture di Rossomme, altri nella pianura di Mont-
Saint-Jean e colà, abbandonati, vinti e terribili, quei sinistri
quadrati finivano in una grandiosa agonia. Ulma, Wagram, Jena e
Friedland morivano con essi.
Al crepuscolo, verso le nove di sera, sul limite inferiore della
spianata di Mont-Saint-Jean, ne rimaneva uno. In quella valletta
funesta, ai piedi di quel pendio superato dai corazzieri ed ora
inondato dalle masse inglesi, sotto i fuochi convergenti della
vittoriosa artiglieria nemica, sotto una spaventosa densità di
proiettili, quel quadrato lottava. Era comandato da un oscuro
ufficiale, chiamato Cambronne; ad ogni scarica, il quadrato si faceva
più piccolo e rispondeva, ribattendo alla mitraglia colla fucileria e
restringendo sempre più i suoi quattro muri. Da lungi i fuggiaschi,
quando si fermavano a riprender fiato, udivano nelle tenebre quel
sinistro tuono decrescente.
Quando quella legione non fu più che un manipolo, quando la loro
bandiera non fu più che un brandello, quando i loro fucili senza
munizioni non furono più che bastoni e il mucchio dei morti fu più
grande del gruppo dei vivi, vi fu fra i vincitori una specie di
terrore sacro, intorno a quei sublimi moribondi, e l'artiglieria
inglese, riprendendo fiato, tacque. Fu una specie di tregua. Quei
combattenti avevano intorno ad essi come un formicolio di spettri,
profili d'uomini a cavallo, nere sagome di cannoni, mentre attraverso
le ruote e gli affusti scorgevano il cielo ormai sereno; la colossale
testa da morto che gli eroi intravedono sempre, nel fumo dello sfondo
della battaglia, andava avanzando su di essi e li guardava. Poterono
sentire nell'ombra crepuscolare che venivan caricati i cannoni,
mentre le micce accese, simili ad occhi di tigre nell'oscurità,
formavano un cerchio intorno alle loro teste e tutti i cannonieri
delle batterie inglesi s'avvicinavano ai cannoni; ed allora,
commosso, tenendo sospeso su quegli uomini il minuto supremo, un
generale inglese, Colville secondo alcuni, Maitland secondo altri,
gridò loro: «Arrendetevi, valorosi francesi!» Cambronne rispose:
«Merda!»
XV • CAMBRONNE
Poiché il lettore francese ci tiene ad essere rispettato, la parola
forse più bella che un francese abbia mai detto non può essergli
ripetuta. È vietato scaricare il sublime nella storia; ma, a nostro
rischio, infrangiamo questo divieto.
Dunque, fra tutti quei giganti vi fu un titano, Cambronne.
Dire quella parola e poi morire: cosa v'è di più grande? Poiché voler
morire è morire e non fu colpa di quell'uomo se, mitragliato,
sopravvisse.
Colui che ha vinto la battaglia di Waterloo non è Napoleone messo in
rotta, non è Wellington, che alle quattro ripiega e alle cinque è
disperato, non è Blücher che non ha affatto combattuto; colui che ha
vinto la battaglia di Waterloo è Cambronne. Poiché fulminare con una
parola simile il nemico che v'uccide, significa vincere.
Dar questa risposta alla catastrofe, dire siffatta cosa al destino,
dare codesta base al futuro leone, gettar codesta ultima battuta in
faccia alla pioggia della notte, al muro traditore d'Hougomont, alla
strada incassata d'Ohain, al ritardo di Grouchy e all'arrivo di
Blücher; esser l'ironia nel sepolcro, fare in modo di restar ritto
dopo che si sarà caduti, annegare in due sillabe la coalizione
europea, offrire ai re le già note latrine dei cesari, fare
dell'ultima delle parole la prima, mescolandovi lo splendore della
Francia, chiudere insolentemente Waterloo col martedì grasso,
completare Leonida con Rabelais, riassumer questa vittoria in una
parola impossibile a pronunciare, perder terreno e conquistare la
storia, aver dalla sua, dopo quel macello, la maggioranza, è una cosa
che raggiunge la grandezza eschilea.
La parola di Cambronne fa l'effetto d'una frattura: la frattura d'un
petto per lo sdegno, il soverchio dell'agonia che esplode. Chi ha
vinto? Wellington? No, perché senza Blücher era perduto. Blücher non
avrebbe potuto finire. E quel Cambronne, quel viandante dell'ora
estrema, quel soldato ignorato, quell'infinitamente piccolo della
guerra sente che lì v'è una menzogna e, straziante aggiunta, una
menzogna in una catastrofe; nel momento in cui esplode di rabbia, gli
offrono quella derisione che è la vita! Come fare a non scattare?
Eccoli lì, tutti i re d'Europa, ecco i generali fortunati, i Giove
tonanti, che hanno centomila soldati vittoriosi e, dietro i
centomila, un milione d'altri soldati; i loro cannoni, colle micce
accese, spalancano le fauci ed essi tengono sotto il tallone la
guardia imperiale e la grande armata; hanno schiacciato or ora
Napoleone ed ora resta soltanto Cambronne; rimane solo, a protestare,
quel verme. E protesterà. Cerca allora una parola, come si cerca una
spada, gli viene la bava alla bocca e quella bava è la parola. Al
cospetto di quella vittoria prodigiosa e mediocre, davanti a quella
vittoria senza vittoriosi, quel disperato si erge ritto; ne subisce
l'enormità, ma ne constata la nullità; fa più che sputarle addosso e,
sotto l'oppressura del numero, della forza e della materia, trova
un'espressione all'animo: l'escremento. Ripetiamolo: dire cosa
siffatta, far ciò, trovar ciò, significa esser vincitore.
L'anima dei grandi giorni entrò, in quel momento fatale, in quello
sconosciuto. Cambronne trovò la parola di Waterloo come Rouget de
l'Isle trovò la Marsigliese, per visitazione dell'alito divino; un
effluvio dell'uragano celeste si stacca e viene a passare attraverso
a quegli uomini ed essi trasaliscono ed uno canta il canto supremo,
come l'altro getta il grido terribile. E quella parola dello sdegno
titanico, Cambronne non la getta soltanto in faccia all'Europa in
nome dell'impero, poiché sarebbe ben poca cosa; la getta al passato,
in nome della rivoluzione. Si sente e si riconosce in Cambronne la
vecchia anima dei giganti; sembra che sia Danton che parla o Kléber
che rugge.
Alla parola di Cambronne, la voce inglese rispose: «Fuoco!» Le
batterie avvamparono, la collina tremò e da tutte quelle bocche di
bronzo uscì un ultimo vomito di mitraglia; una gran nube di fumo,
vagamente rischiarata dalla luna nascente, roteò nell'aria e, quando
il fumo fu dissipato, non v'era più nulla. Quel formidabile avanzo
era annientato: la guardia era morta. I quattro muri della ridotta
vivente giacevano a terra e a malapena si distingueva qua e là un
sussulto, in mezzo ai cadaveri; così spirarono a Mont-Saint-Jean le
legioni francesi, più grandi delle legioni romane, sulle zolle
bagnate di pioggia e di sangue, fra le spighe sinistre, nel luogo
dove ora passa, alle quattro del mattino, fischiettando e sferzando
allegramente il cavallo, Giuseppe, che fa il servizio della diligenza
di Nivelles.